La solitudine del post-aborto

Un bambino nasce prima nella mente di chi lo ha pensato poi nel corpo della madre e solo in ultimo nasce alla vita attraverso il parto.
Dunque una madre che subisce un aborto, sia esso spontaneo o terapeutico, sperimenta la perdita di un bimbo che non potrà stringere a Sé e di una parte di se stessa, della sua identità di madre del suo essere donna.
La risposta alla perdita è il lutto, la necessaria elaborazione di ciò che manca, che non c’è più, che poteva esserci e non ci sarà, compresi sogni, aspettative, e fantasie.
L’elaborazione del lutto prevede tempi lunghi e tempi di dolore. La donna ha diritto ad esprimere la disperazione, la rabbia, lo sgomento.
Se ciò non avviene, al vuoto della perdita si aggiunge un vuoto emotivo, come se ad un evento traumatico non corrispondesse alcun tipo di emozione.
Ciò è evidentemente irrealistico, le emozioni ad esso connesse vengono dunque cancellate, messe in un angolino della propria mente oppure sono li presenti ma non possono essere condivise.
Siamo abituati a non sapere che farci del dolore. Sin da bambini la frase che sentiamo più spesso e che sembrerebbe consolare ogni caduta, fallimento e frustrazione, è “Non pensarci, non è successo niente, non ti sei fatto niente, non piangere”.
In sintesi il dolore non esiste. Ma un bambino cade, si fa male e ha diritto di piangere.
Allo stesso modo una donna che vive l’esperienza dolorosa dell’aborto cade si fa male ed ha diritto di piangere. Invece il più delle volte è spinta a negare il suo dolore, a farsi forza, ad andare avanti.
“Non pensarci… fanne una altro”.
Ma lo spazio dedicato a quel bambino da quella madre, nella sua testa, nel suo cuore e nel suo corpo, non ha diritto di essere pensato e sperimentato come vuoto?
Quel vuoto va subito riempito da qualcun al-tro che avrà il duro compito di subentrare al posto di chi non c’è più?
Certo ci sarà il tempo per pensare ad un altro bimbo, se si vorrà, ma ci dovrà anche essere il tempo di stare con il proprio dolore, magari condividendolo con chi è disponibile all’ascolto, evitando la solitudine e la negazione.